Caritas Christi urget
nos (2Cor 5,14): Riscoprire la gioia nel credere e
ritrovare l'entusiasmo nel comunicare la fede
Premessa
Dopo aver manifestato quale sia stato il
motivo che lo ha spinto ad indire un anno della Fede e cioè «l'esigenza di riscoprire il cammino della
fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato
entusiasmo dell'incontro con Cristo» (2 PF)
e di aver sottolineato la sua preoccupazione, che fa da sfondo a questa
esigenza e cioè il non deporre le armi di fronte alla constatazione oggettiva
che sempre più «il sale diventi insipido
e la luce sia tenuta nascosta» (3 PF),
Benedetto XVI indica poi, quali siano le motivazioni di fondo che spingono il
credente a porsi in cammino verso questa «porta
della fede che introduce alla vita di comunione con Dio...» (1 PF). Di queste motivazioni ci parla il
n° 7 della lettera (che analizzeremo di seguito), che si apre con un incipit -
che ho per altro usato come parte del titolo della riflessione - il v. 14 del
quinto capitolo della 2Cor: Caritas
Christi urget nos. Dopo aver dato uno sguardo di insieme alla struttura del
paragrafo in questione, la mia riflessione, partendo proprio da una breve
analisi del versetto su citato, cercherà di cogliere gli aspetti intrinseci ed
estrinseci di questo ritrovato "moto dello spirito", appunto del riscoprire la gioia del credere e del
conseguente "moto del corpo", che si esprime attraverso "l'entusiasmo ritrovato nel comunicare la
fede".
Questi due moti non sono altro che l'unico movimento di conversione, che vede l'uomo, nella sua interezza - dimensione dell'animo o interiore e dimensione del vissuto o esteriore - mettersi in gioco in una riscoperta della sua vera identità di discepolo, di amico, di testimone del Cristo risorto e vivo. La conclusione farà da sintesi di questi tre punti brevemente tracciati - analisi di 2Cor 5,14, analisi del "motu spiritus" ed analisi del "motu corporis" -, per aprire una riflessione più profonda e proficua.
Questi due moti non sono altro che l'unico movimento di conversione, che vede l'uomo, nella sua interezza - dimensione dell'animo o interiore e dimensione del vissuto o esteriore - mettersi in gioco in una riscoperta della sua vera identità di discepolo, di amico, di testimone del Cristo risorto e vivo. La conclusione farà da sintesi di questi tre punti brevemente tracciati - analisi di 2Cor 5,14, analisi del "motu spiritus" ed analisi del "motu corporis" -, per aprire una riflessione più profonda e proficua.
Il Testo
"Caritas
Christi urget nos" (2Cor 5,14): è l’amore di Cristo che colma i nostri cuori e ci spinge ad
evangelizzare. Egli, oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per
proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra (cfr Mt 28,19). Con il
suo amore, Gesù Cristo attira a sé gli uomini di ogni generazione: in ogni
tempo Egli convoca la Chiesa affidandole l’annuncio del Vangelo, con un mandato
che è sempre nuovo. Per questo anche oggi è necessario un più convinto impegno
ecclesiale a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel
credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede. Nella quotidiana
riscoperta del suo amore attinge forza e vigore l’impegno missionario dei
credenti che non può mai venire meno. La fede, infatti, cresce quando è vissuta
come esperienza di un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza
di grazia e di gioia. Essa rende fecondi, perché allarga il cuore nella
speranza e consente di offrire una testimonianza capace di generare: apre,
infatti, il cuore e la mente di quanti ascoltano ad accogliere l’invito del
Signore di aderire alla sua Parola per diventare suoi discepoli.
I credenti, attesta sant’Agostino, "si
fortificano credendo". Il santo Vescovo di Ippona aveva buone ragioni per
esprimersi in questo modo. Come sappiamo, la sua vita fu una ricerca continua
della bellezza della fede fino a quando il suo cuore non trovò riposo in Dio. I
suoi numerosi scritti, nei quali vengono spiegate l’importanza del credere e la
verità della fede, permangono fino ai nostri giorni come un patrimonio di
ricchezza ineguagliabile e consentono ancora a tante persone in ricerca di Dio
di trovare il giusto percorso per accedere alla "porta della fede".
Solo credendo, quindi, la fede cresce e si
rafforza; non c’è altra possibilità per possedere certezza sulla propria vita
se non abbandonarsi, in un crescendo continuo, nelle mani di un amore che si
sperimenta sempre più grande perché ha la sua origine in Dio.
Sguardo di insieme della struttura
Il paragrafo si apre con una affermazione, che farà da
sfondo a tutto lo sviluppo successivo e da fondamento per qualsiasi ulteriore
discorso: "l'amore di Cristo ci
spinge". È un amore coinvolgente che, nell'incontro rivelativo del Dio
uno e trino, non lascia l'uomo indifferente, anzi, questo incontro
risulta essere pervasivo della vita umana. Costringe il destinatario di questa
autocomunicazione divina, a porsi in discussione, a domandarsi sul suo essere e
del suo essere giungendo, infine, ad una scelta radicale: mettersi o meno alla
Sua sequela, con tutto ciò che questo comporta. Colui che sceglie la sequela
non può fare altro, che gridare a tutti la gioia di questo incontro, in pratica
non fa altro che evangelizzare. È Dio stesso, per mezzo del suo Figlio, Gesù
Cristo, per la potenza dello Spirito Santo, che manda l'uomo per le strade di
tutto il mondo per fare conoscere ciò che allora, ma ancora adesso, questo
incontro, questa esperienza, lascia nella vita di colui il quale incrocia le
sue vie. Lo stesso termine "esperienza" che in greco viene reso con peiro, (che significa principalmente: "passare attraverso"),
esprime bene l'evento, che avvolge e travolge gli attori di questo incontro.
Qui il destinatario viene inondato di quell'azione divina, che diviene
inabitazione nell'essere dell'uomo, cambiando quest'ultimo nel suo
"carattere spirituale" (vedi la vita sacramentale). Coloro che sono
attirati dall'amore di Cristo testimoniano, in fondo, questa esperienza di
vita. Questi uomini vivono adesso una nuova vita, che è metamorfosi spirituale
e materiale, in una nuova comunità di chiamati, appunto la Chiesa. Questa
metamorfosi, che niente a che vedere con quella kafkiana, la chiamiamo "conversione
di vita", che si rinnova giorno dopo giorno, perchè l'incontro con
l'amante è, per la sua essenza, dinamico, non dato una volte per tutte, ma
sempre originale. La novità quotidiana dell'incontro Cristo/uomo non può che non
essere testimoniata come essa è realmente: viva, efficace, mai stanca, ma
inquietante per ciò che comporta nell'esistenza del chiamato e per questo,
responsabilizzante, perchè il chiamato, il discepolo, l'amico di Gesù, ha su di
sé il destino delle anime dei fratelli, di tutti coloro, che ancora oggi,
attendono di essere dissetati dall'acqua viva di Cristo. È la gioia dell'essere
comunicatore, di essere portatore del messaggio di salvezza, di essere apostolo.
È la stessa gioia sconvolgente degli innamorati, i quali non possono fare a
meno di pensarsi, di darsi sempre più per diventare una cosa sola,
nell'abbraccio che si fa silenzio e ascolto e che inonda gli altri, che sono
vicini e che, anche loro, partecipano della stessa gioia, diventano anch'essi
testimoni oculari di questa sensazionale esperienza. Dopo il primo approccio di
conoscenza, l'uomo non può fare altro che fidarsi e affidarsi all'amante
divino. È l'atto di fede quale frutto di questo incontro. La fede viene a
connotarsi come obbedienza a qualcosa che pervade l'essere. È un'obbedienza
libera e vincolata: libera in quanto l'innamorato sceglie egli stesso di dire
"si", vincolata e vincolante, perchè imbrigliato nelle spirali
dell'amore infinito non può fare altro, che essere ciò che è essenzialmente:
follemente innamorato. Più ci si abbandona alla certezza dell'amore, più non si
può farne a meno e più si cresce nella propria identità di uomo e di cristiano.
È la fiducia nella certezza che non ha fine, che è già respiro di
quell'eternità, che viene chiamata "paradiso" e che è già esistenza
nella vita pneumatica dell'uomo
nuovo. Fin da oggi viviamo parte di quel luogo che è l'Amore di Dio Trinità.
Questo è il tempo non più identificabile con il Cronos, ma con il Kairos:
la pienezza del tempo; il tempo di grazia inaugurato da Cristo Gesù nell'evento
della risurrezione. Il cammino di fede del discepolo è così radicato nella
nuova condizione di essere non per il mondo, sebbene continui la sua avventura
nel mondo. È così che l'amico di Gesù vive ciò che i teologi identificano con
il "già" e il "non ancora". Questo stato, alla
luce dell'attuale contesto storico-politico-economico, a molti, risulterebbe
essere come "precarietà di vita". Così la vita del cristiano è
valutata come uno stato deprimente, frustrante. Per il credente, invece, lo
stato del "già" coincide
con il pregustare oggi la visione totalizzante del volto di Dio, che diverrà
piena e inebriante com-prensione (da cum
- prendere: prendere con, abbracciare, fare proprio), del Suo Amore. Questo
"già" per la sua essenza
escatologica, rende la fede del credente feconda,
cioè capace di procreare altri nella fede, perchè al suo interno è colma dei
semi di speranza, che hanno in Cristo la Speranza che è già certezza. Tale Speranza,
oggi, apre orizzonti inspiegabili tra le ansie e le paure, che la drammaticità
della quotidianità non smette mai di regalare. Allora, in un tempo in cui tutto
è precario, tutto incerto, lasciando cadere nel nulla della propria esistenza
la maggior parte di coloro, che "a questo mondo" si attaccano, l'unica
risposta, che è certezza e da certezza è Gesù Cristo, l'autore della nostra
redenzione, che è il frutto del dono dell'autodonazione di Dio nel Figlio. Qui la
speranza si apre a noi in modo originale. Non è una speranza che implica anche
una quota di incertezza (la speranza sostanzialmente umana), ma una speranza
affidabile, nel quale orizzonte non ci sono insicurezze, non ci sono dubbi, ma la
certezza della presenza viva della Trinità, della via, della vita e della
verità. La vita del discepolo, allora, viene immersa in questa relazione, che
rende liberi, come libera è la relazione trinitaria, entusiasti per la visione
nuova dell'orizzonte della propria esistenza in un crescendo infinito di
emozioni. Così viene giustificata l'affermazione di S. Agostino: «i credenti si
fortificano credendo». Ciò vuol dire che
la fede, quale risposta libera dell'uomo alla domanda di amore di Dio rivelato,
si irrobustisce lungo il percorso della vita, nella doppia dimensione
individuale e comunitaria. Questo perché l'abbandonarsi a Dio porta in sé
necessariamente ed essenzialmente una doppia risposta al Padre (dimensione
verticale della fede) e all'uomo (dimensione orizzontale della fede). Allora la
fede diviene la possibilità di esistenza totalizzante della dimensione unitaria
dell'uomo in quanto persona, ed in quanto persona, la fede è la risposta che
rende l'uomo veramente uomo. La persona è resa veramente tale realizzando al
massimo la sua dignità quale creatura fatta ad immagine e somiglianza del Dio
creatore. Paradossalmente più il cristiano vive questo abbandono, che molti
valutano come il tuffarsi nel nulla, più si fa intimo alla vita di relazione
tri-personale divina e più viene rafforzato nella risposta al mondo rispetto
alla sua attuale condizione di vita legittimando ciò che Pietro ci sollecita a
fare: «pronti sempre a rispondere a
chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).
L'Amore di Cristo...
Dopo aver tentato di dare una lettura
di insieme dei principali concetti del paragrafo 7, vogliamo, adesso, cercare
di riflettere su alcuni punti che, a nostro avviso, sembrano importanti per
chiarire quale sia la forza soggiacente all'idea di fondo di tutta quanta la
lettera e, più specificamente, delle motivazioni che spingono il credente ad
una riscoperta del suo essere cristiano. Per questo, come già preannunciato
nella premessa ci soffermeremo sull'incipit del punto di nostra pertinenza,
perchè da una lettura esegetica più approfondita si scorgono nuovi orizzonti
interpretativi dello stesso paragrafo e, non di meno, della riflessione
antropologica-teologica, che chiaramente emerge dal contesto del punto in
questione.
Caritas Christi urget
nos, che il santo
padre traduce con «l'amore di Cristo ci
spinge», in realtà può essere tradotto anche diversamente, in modo da fare
emergere l'alto spessore teologico, ma anche pastorale, che soggiace dietro allo
sviluppo del tema in questione. La traduzione ulteriore può essere data solo
analizzando l'intero v 14, senza però tralasciare i vv 13 e 15, che illuminano
la nostra frase usata come incipit.
Il v 14, infatti, continua con una constatazione: «noi sappiamo bene che uno è morto per tutti,
dunque tutti sono morti». Qui il «per
tutti» da alla morte di Cristo un significato universale, cioè per i
credenti, ma anche per quelli che non credono o a cui non è ancora arrivato il
lieto annuncio. Questa universalità è data dal fatto, che la morte di Cristo
non è sostitutiva, vicaria - "al posto di" -, ma "per noi",
a "nostro favore", sottolineando la sostanziale novità del vangelo
cristiano che nella morte del Figlio di Dio vede la fonte inesauribile
dell'Amore trinitario per l'uomo.
Caritas Christi,
l'amore di Cristo, "urget",
tradotto qui con "spinge" è, a mio avviso, la chiave di lettura, la
chiave interpretativa, che apre orizzonti nuovi, verso una più ampia presa di
coscienza rispetto al nostro essere e dovere essere di fronte l'altro e quindi
nel prendere posizione rispetto all'evangelizzazione. Infatti, il verbo
utilizzato nel testo greco "synechei",
ha un'ampia gamma di significati, che definiscono la Caritas Christi in un modo diverso dal verbo "spingere" usato nella lettera. "Urget, synechei" può essere così
tradotto: tenere insieme, sostenere,
abbracciare, guidare, sospingere, stringere, travolgere, reclamare, obbligare,
costringere, opprimere, affliggere, comprimere, sequestrare, assediare e
tormentare. Si vede benissimo quale spettro di significati e di sfumature
si da con un semplice verbo all'Amore di Cristo. Proprio di questo Amore qui si
vuole parlare e alla luce di ciò che è stato detto fin d'ora, cercare di cogliere
il senso che l'azione agapica - questo ricolmare d'amore - , ha nei confronti
dell'uomo. Dobbiamo subito sottolineare, che il donarsi di Cristo all'uomo non
lascia dubbi sull'essenza di questo amore. Se Cristo muore per noi, senza
nessuna esplicita richiesta, senza alcuna necessità contingente, allora possiamo
comprendere l'intensità, o per dirla con Paolo, la larghezza e la lunghezza del
dono che il Figlio di Dio ci offre, dono che è dato per sempre e per sempre
rimane con noi, così che possiamo dire: "chi
ci separerà dall'amore di Cristo?" (Rm 8, 35). Dunque solo questo
Amore diventa la nostra ragion d'essere e del nostro operare. Non dobbiamo
nemmeno scandalizzarci se possiamo dire che, l'Amore di Cristo ci costringe, ci obbliga, ci opprime, ci sequestra e in definitiva ci tormenta. In tutti questi significati
ognuno può rileggere la sua vita in riferimento alla sua chiamata, alla sua
"vocazione" ed in tutto questo siamo in buona compagnia se Geremia,
in 20,7, dice: «Signore [...] mi hai
fatto violenza». È allora plausibile ciò che l'apostolo esprime al v 13: «Se infatti siamo stati fuori di senno, era
per Dio; se siamo assennati, è per voi», facendoci comprendere quale sia il
senso del v 14. Ma se il v 13 ci fa cogliere quali siano le conseguenze dell'essere
travolti, sostenuti e guidati, da
questo Amore, il v 15 sottolinea quale dovrebbe essere la motivazione,
attraverso cui anche il destinatario dell'epistola si ritrova negli stessi
sentimenti di Paolo: «Ed Egli è morto per
tutti, perchè quelli che vivono non vivono più per se stessi, ma per Colui che
è morto e risorto per loro». Allora l'essere pazzo o fuori di senno, da
parte di Paolo, ma così anche da parte di chiunque, ha come motivo principale,
l'essere consapevole di ciò che ha radicalmente stravolto la sua vita e cioè
l'autodonazione di Cristo nelle mani dell'uomo, per salvare dalla morte l'uomo
stesso. E questa consapevolezza è affermata proprio nel v 14.
Il moto dello spirito: riscoprire
la gioia del credere
"La gioia nel credere" è il moto dello spirito,
come movimento di tutta l'esistenza del credente, in quanto "uscire da se
stesso" per "divenire" ed "essere" comunione con Dio
Trinità. Questo "uscire da se stesso" coglie il significato profondo
delle parole di Gesù nel vangelo di Marco 8,34 «se qualcuno vuol venire dietro
me, rinneghi se stesso...». È il
mettere al primo posto Colui il quale ci guida perchè Egli è la Via, per la
quale si giunge a quella comunione suddetta. È, in modo più profondo, il farsi
come Cristo stesso nell'abbandono a Dio, l'Abbà,
che è libera adesione alla volontà del Padre e che, quindi si manifesta come
obbedienza e fede all'agire di Dio. Questo è l'atteggiamento "sostanziale" di vita di Gesù, che
nasce e cresce con lui lungo tutta la vita, manifestata ampiamente (per quello
che a noi è dato di sapere), nel corso della sua vita pubblica. Gesù prega: chiede
al Padre e si rimette alla Sua volontà. Gesù è uomo di fede. È, dunque,
anch'Egli soggetto della nostra stessa fede in Dio Padre, ma nello stesso tempo,
Gesù il Cristo, è con il Padre l'oggetto nella nostra fede. La gioia del
credere di Gesù sta nell'abbandono totale al volere del Padre, un abbandono che
certamente matura progressivamente, che giunge al dramma della croce anche con
la prova angosciante del getsemani, che apre le porte alla sofferenza massima,
nella quale si coglie la massima espressione dell'amore gratuito per l'uomo.
Gesù diviene il modello della sofferenza corporale e spirituale. In questa
sofferenza bisogna leggere la sofferenza della natura umana nella sua caducità,
nella sua limitatezza creaturale, ma che non termina con l'oblio, con il nichilismo.
Qui si manifesta il mistero dell'agape trinitario: la croce. Il legno della
croce diventa per il credente motivo di salvezza e quindi di gioia. Proprio
attraverso quel legno l'uomo ha la certezza della vera vita, della vita eterna.
Della possibilità di contemplare "faccia a faccia" il volto
meraviglioso di Dio onnipotente. E qui sta la gioia del credente. Possiamo
credere, perchè questo credere è reso definitivamente certezza di vita eterna attraverso
la stessa fede di Gesù. L'abbandono di Gesù è il modello dell'abbandono del
credente, che in questo, come per Cristo, non è lasciato solo. Certamente, non
in modo irrilevante, l'azione dello Spirito santo risulta essere "conditio sine qua non" per cui ci
possa essere da parte del cristiano la forza, il coraggio per rimanere
responsabilmente nel suo "si". La gioia sta anche nella novità di
questo amore, che lo Spirito rinnova momento per momento. La novità non è
certamente rottura con il passato, ma ritrovato entusiasmo di ciò che questa
comunione dona nella vita del credente e nella vita di colui che vive accanto a
lui.
Il moto del corpo: Il
comunicare la fede
Se "riscoprire
la gioia del credere" si può fare rientrare nella dimensione
spirituale della persona, il "comunicare
la fede" rientra in quella dimensione, che possiamo chiamare,
corporale-sociale della persona. Infatti, comunicare la fede è insito nell'esistenza
del cristiano che, dopo aver liberamente accettato di porsi alla sequela di
Gesù, vive ciò a cui ha dato il suo assenso: vive ciò che crede e dunque non
può fare altro che testimoniare alla comunità tutta la novità del suo
"essere nuovo", con tutto il suo "essere nuovo". Ciò vuol
dire che il linguaggio usato adesso sarà diverso dal precedente, perchè pervaso
di una nuova vitalità, la vita nello Spirito. È l'agire del cristiano, che
viene chiamato in questione. Ma come "comunica"
la sua fede il cristiano? e principalmente cosa "comunica"? Non vogliamo certamente trattare questi argomenti,
perché già trattati altrove con grande puntualità, ma ci sembrava importante richiamare
la nostra attenzione, magari anche per una riflessione futura, su questi due
interrogativi perché, crediamo, siano alla base dell'inquietudine di tutti
coloro che hanno a che fare con la pastorale, in ogni suo ambito e che, il
problema di fondo, cioè quello della comunicazione, sia oggi più che mai
cocente ed esige una presa di consapevolezza della responsabilità che il cristiano
porta in sé, per il semplice fatto di aver detto "si" alla Verità. La
Verità, in rapporto alla fede, a cui ci riferiamo non è data da una somma di norme
dottrinali, ma è una persona: Gesù Cristo, la Parola divina «diventata carne»
(Gv 1,14) e per mezzo della quale, Dio si è manifestato per ciò che è
essenzialmente: Trinità. È una Verità, che oltrepassa tutte le altre verità,
che l'uomo nella sua esistenza accerta e accetta. Questa Verità, infatti, ha
già in sé la sua particolarità, il fatto di essere la persona del Gesù, il
Cristo, e quindi non è affatto il risultato di processi intellettuali, ma un incontro,
incontro con Cristo. Nell'incontro con il vero Dio e il vero uomo, all'uomo di
allora si aprivano orizzonti di conoscenza inimmaginabili, così con Giovanni Gesù
ci dice: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Oggi, quest'incontro
può realizzarsi come allora, nella comunità dei credenti attraverso i
sacramenti, che sono il luogo d'incontro tra Dio e l'uomo, così come affermava
Leone Magno: «ciò che era manifesto (visibile) nel nostro Salvatore si è mutato
nei suoi misteri». La vita sacramentale è, dunque, la condizione necessaria per
poter avere questo incontro, poter partecipare con la Vita di Colui il quale ci
ha aperto questa Via. È, quindi, uno dei modi di comunicazione della fede.
Certamente è un linguaggio che pretende già il consenso della fede. Un cammino
di fede, che è già esperienza di questo incontro. È la "comunicazione" ad intra della
chiesa, se così possiamo dire. Ma crediamo sia la base da cui partire per avere
una giusta comunicazione ad extra della chiesa. Un vero testimone della fede
cristiana è tale solo se si abbevera di quell'acqua viva che è Cristo e questo
lo realizza proprio all'interno della comunità dei chiamati in una vita che è
relazione di fratelli in Gesù, in unità di intenti e di voleri: «erano perseveranti nell'insegnamento degli
apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere [...]Tutti
i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro
proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di
ciascuno.[...] spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e
semplicità di cuore, lodando Dio e godevano il favore di tutto il popolo.
Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano
salvati» (At 2,42-47). Da questa bellissima pagina sacra, nella quale si
attesta una vita di comunità intensa fondata, appunto da quell'incontro che
stravolge la vita, emerge in maniera decisiva, per la scelta di vita attuale
della comunità credente, il bisogno di una vicinanza più intima tra i membri
della stessa comunità, dove non ci sono docenti che si innalzano con la loro
autorità, dove non ci sono condizioni particolari per farne parte, ma dove
l'apostolo stesso che è il primo testimone della Parola, è a servizio della comunità, dove la comunione, insieme alla fratio panis e alle preghiere, diviene l'unica
forma di vita possibile, poiché unica è la relazione intratrinitaria, della
quale il cristiano partecipa attivamente in forza dell'unico Spirito, che
realizza la comunicazione di questa relazione, come forza centrifuga che si
distacca potente dall'unico eterno e infinto abbraccio d'Amore tra il Padre e
il Figlio. Quindi era la testimonianza silenziosa, attraverso l'orazione
continua a Dio, «lodando Dio»
appunto, che rendeva i cristiani graditi agli altri. Essi «godevano il favore di tutto il popolo». Bastava manifestare con
onestà ciò che si era, nella «semplicità
di cuore», per essere riconosciuti e credibili nella loro nuova condizione
di vita.
Breve conclusione
Vogliamo ora tirare delle conclusioni,
che possano essere da trampolino per un più ampio e puntuale sviluppo degli
argomenti. Per fare questo intendiamo forzare, chiedendo già venia per le
conclusioni forse non coerenti con la sensibilità di alcuni lettori, il testo
preso in considerazione. Infatti, se cambiassimo il significato dato al verbo dell'incipit
"urget" a favore di una
meno delicata, sebbene corretta, interpretazione del testo, con uno dei verbi
della traduzione su effettuata, il tenore di tutta la lettera cambierebbe. Cioè
se al posto di «l'amore di Cristo ci spinge»,
mettessimo "ci tormenta", o
"ci costringe", o ancora
"ci obbliga", ma anche
"ci reclama" o "reclama a noi", potremmo rileggere
l'ulteriore sviluppo in una dimensione forse più drammatica, ma sicuramente più
incisiva, sempre tenendo conto di ciò che è stato finora detto, che la fede
nasce dall’incontro particolare al quale si da il consenso libero e vincolante,
che fa dell'uomo, della persona, un cristiano, cioè uno che segue Cristo, che
vive con, in e per Cristo. Allora se l'Amore di Gesù Cristo, che è intrinseco
della vita trinitaria, stravolge così ampiamente sia l'intimità della persona,
che la sua vita relazionale, non può non essere intesa nei sensi dati dalle
accezioni linguistiche succitate e dunque non può che essere necessariamente
performante per il cristiano. Il tormento di questo amore investe tutta la
persona senza lasciare fuori alcun ambito della sua vita: la sua intimità, la
sua famiglia, il suo lavoro, insomma la sua vocazione qualunque essa sia. È
dunque ciò che succede al pazzo quando non fa altro che entrare tanto in se
stesso da estraniarsi, facendo emergere le profondità del suo essere, le quali
vengono alla luce sempre per una causa scatenante che suscita una forte
tensione nervosa e spirituale, fuggendo dalla realtà che da insicurezza ed
incertezza, giungendo all'alienazione che risulta essere l'unica situazione che
da riparo dall'altro da sé. Il cristiano "è" e "deve"
essere questo folle, così come Paolo al v.13 della pericope citata. L'incontro
con Cristo, in un primo tempo fa rientrare in se l'uomo, nel senso che,
l'esperienza realizzata necessariamente, se reale, riporta il destinatario
dell'evento dentro sé dove riconosce di essere profondamente distante, ma nello
stesso tempo legato a Dio. Si riconosce naturalmente limitato, ma
tensionalmente vicino a Colui che interpella. La riflessione che sfocia è
profondamente personale, perchè quell'incontro tocca l'essere stesso dell'uomo.
La causa scatenante, quindi è Cristo che chiama e che si china verso il
piccolo, verso l'amico, verso il discepolo. Il risultato di questa riflessione
intima può essere positiva, nel senso di porsi positivamente di fronte a Colui
che parla e con lui intessere un dialogo aperto, intelligente, travolgente, ma
può essere negativa, in quanto ciò che emerge dall'intimo dell'uomo potrebbe
risultare così sconvolgente da lasciare irrigiditi nelle proprie convinzioni,
nei propri preconcetti, nella propria realtà. La risposta positiva alla Parola
innesca nell'uomo dei moti vitali che, per forza, coinvolgono la sua esistenza.
È l'alienazione del cristiano, che avviene dal e nel "tormento", dalla e nella "costrizione" che il dialogo, che è essenzialmente dialogo
d'Amore, fa vivere. Il tormento è appunto quello stato d'animo che nasce, nel
caso della risposta di fede, dalla consapevolezza della grandezza dell'Amore che
chiama e alla quale chiamata si può solo rispondere in maniera incompleta e
questa sensazione avvilisce l'uomo, che si sente profondamente diverso e
lontano da qual Dio che si è fatto vicino a lui. È la consapevolezza
dell'inadeguatezza spirituale del cristiano. Ma è uno stato d'animo, che non
distrugge l'intimo dell'uomo, come succede al malato psichico, ma anzi obbliga il cristiano a ritornare
nuovamente a dialogare con chi interpella, per colmare il vuoto conosciuto
dell'inutilità. Così S. Agostino nelle sue confessioni
dice a Dio stesso parlando di quest'uomo che anela di quell'Amore: «Tu lo sproni, affinché gusti la gioia di
lodarti, poiché ci hai creati per Te e il nostro cuore non ha pace fino a che
non riposi in Te» ed ancora quando parla della divina chiamata dice:«Tu eri dentro di me, io stavo al di fuori
[...] Tu eri con me, ed io non ero con Te [...]Mi chiamasti, gridasti, e
vincesti la mia sordità; folgorasti il tuo splendore e mettesti in fuga la mia
cecità, esalasti il tuo profumo, lo aspirai ed anelo a Te; ti degustai, ed ora
ho fame e sete; mi toccasti, ed ora brucio di desiderio per la tua pace». Allora
riscoprire la gioia del credere non è
altro che rientrare nello stato di dialogo che ha Dio come interlocutore
principale, è un ripensare la propria esistenza nei termini di abbandono, di
affidamento, la gioia nasce dall'incontro ritrovato, dall'unione uomo/Dio, che
è realizzazione di quell'unione teandrica che ha Cristo Gesù, quale massima
espressione. Di conseguenza il comunicare
la fede, risponde all'esigenza di far conoscere a tutti questo stato
pervasivo dell'anima, questo abbandono ritrovato, e tutto questo in termini di missionarietà. Il dirsi del cristiano,
diventa missione, la vita del cristiano è missione; è esigenza di farsi
prossimo, di testimoniare ciò che vive alla comunità e agli altri. In termini
di missionarietà il cristiano deve necessariamente riscoprire i valori etici
fondamentali della sua esistenza: onestà, pace, fratellanza, comprensione
reciproca, solidarietà, perdono. Ciò vuol dire, far fronte alle difficoltà che
nascono dallo scontro con la cultura scristianizzata, che non riconosce più
nella fede un criterio operativo dell'esistenza personale, familiare e sociale.
È l'impegno dell'uomo di fronte all'uomo di dire qualcosa di veramente
originale in termini nuovi, in termini coinvolgenti, rimanendo sempre allo
stesso piano dell'altro, crescendo con l'altro, accompagnando l'altro e in
questo, Dio trinità non lasciarà\ mai solo la sua creatura.
Bibliografia essenziale
La Bibbia di
Gerusalemme, EDB,
2009 Trento.
BENEDETTO XVI, Spe Salvi, lettera enciclica, Libreria Editrice Vaticana, 2007
Città del Vaticano.
AGOSTINO D’IPPONA, Le
Confessioni, int. di A. LANDI, Edizione Paoline, 20013 Torino.
A. PITTA, Seconda
lettera ai Corinzi, in Nuovo
Testamento – commento esegetico e spirituale, Città Nuova Editrice, 2008 Roma.
P. CODA – C. HENNECHE (edd.), La fede, evento e promessa, Città Nuova Editrice, 2000 Roma.
D. BONHOEFFER, Sequela,
Editrice Queriniania, 20082 Brescia.
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