Il senso dell'essere...

E' bello poter vivere con i fratelli occasioni particolari, che rimangano nel tuo cuore. E' meraviglioso sapere che le tue stesse sensazioni sono vissute dagli altri nello stesso modo. E' stupendo comprendere come ciò che interessa all'altro non sei tu per ciò che rappresenti, ma per ciò che sei. Vivere profondamente l'esperienza dell'amicizia, che è fondata sull'amore vicendevole che Cristo ci ha mostrato, è l'unica modalità per cui tutto ciò si può avverare. "Pietro mi ami? si, Padre, con tutti i miei limiti io mi sforzo di amarti nel fratello che mi poni dinanzi.

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martedì 5 giugno 2012

Riflessione sul n° 7 del motu proprio Porta Fidei


Caritas Christi urget nos (2Cor 5,14): Riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l'entusiasmo nel comunicare la fede



          Premessa

           Dopo aver manifestato quale sia stato il motivo che lo ha spinto ad indire un anno della Fede e cioè «l'esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato entusiasmo dell'incontro con Cristo» (2 PF) e di aver sottolineato la sua preoccupazione, che fa da sfondo a questa esigenza e cioè il non deporre le armi di fronte alla constatazione oggettiva che sempre più «il sale diventi insipido e la luce sia tenuta nascosta» (3 PF), Benedetto XVI indica poi, quali siano le motivazioni di fondo che spingono il credente a porsi in cammino verso questa «porta della fede che introduce alla vita di comunione con Dio...» (1 PF). Di queste motivazioni ci parla il n° 7 della lettera (che analizzeremo di seguito), che si apre con un incipit - che ho per altro usato come parte del titolo della riflessione - il v. 14 del quinto capitolo della 2Cor: Caritas Christi urget nos. Dopo aver dato uno sguardo di insieme alla struttura del paragrafo in questione, la mia riflessione, partendo proprio da una breve analisi del versetto su citato, cercherà di cogliere gli aspetti intrinseci ed estrinseci di questo ritrovato "moto dello spirito", appunto del riscoprire la gioia del credere e del conseguente "moto del corpo", che si esprime attraverso "l'entusiasmo ritrovato nel comunicare la fede".
Questi due moti non sono altro che l'unico movimento di conversione, che vede l'uomo, nella sua interezza - dimensione dell'animo o interiore e dimensione del vissuto o esteriore - mettersi in gioco in una riscoperta della sua vera identità di discepolo, di amico, di testimone del Cristo risorto e vivo. La conclusione farà da sintesi di questi tre punti brevemente tracciati -  analisi di 2Cor 5,14, analisi del "motu spiritus" ed analisi del "motu corporis" -, per aprire una riflessione più profonda e proficua.

Il Testo

 "Caritas Christi urget nos" (2Cor 5,14): è l’amore di Cristo che colma i nostri cuori e ci spinge ad evangelizzare. Egli, oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra (cfr Mt 28,19). Con il suo amore, Gesù Cristo attira a sé gli uomini di ogni generazione: in ogni tempo Egli convoca la Chiesa affidandole l’annuncio del Vangelo, con un mandato che è sempre nuovo. Per questo anche oggi è necessario un più convinto impegno ecclesiale a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede. Nella quotidiana riscoperta del suo amore attinge forza e vigore l’impegno missionario dei credenti che non può mai venire meno. La fede, infatti, cresce quando è vissuta come esperienza di un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia. Essa rende fecondi, perché allarga il cuore nella speranza e consente di offrire una testimonianza capace di generare: apre, infatti, il cuore e la mente di quanti ascoltano ad accogliere l’invito del Signore di aderire alla sua Parola per diventare suoi discepoli. 
          I credenti, attesta sant’Agostino, "si fortificano credendo". Il santo Vescovo di Ippona aveva buone ragioni per esprimersi in questo modo. Come sappiamo, la sua vita fu una ricerca continua della bellezza della fede fino a quando il suo cuore non trovò riposo in Dio. I suoi numerosi scritti, nei quali vengono spiegate l’importanza del credere e la verità della fede, permangono fino ai nostri giorni come un patrimonio di ricchezza ineguagliabile e consentono ancora a tante persone in ricerca di Dio di trovare il giusto percorso per accedere alla "porta della fede".


Solo credendo, quindi, la fede cresce e si rafforza; non c’è altra possibilità per possedere certezza sulla propria vita se non abbandonarsi, in un crescendo continuo, nelle mani di un amore che si sperimenta sempre più grande perché ha la sua origine in Dio.


Sguardo di insieme della struttura       

          Il paragrafo si apre con una affermazione, che farà da sfondo a tutto lo sviluppo successivo e da fondamento per qualsiasi ulteriore discorso: "l'amore di Cristo ci spinge". È un amore coinvolgente che, nell'incontro rivelativo del Dio uno e trino, non lascia l'uomo indifferente, anzi, questo incontro risulta essere pervasivo della vita umana. Costringe il destinatario di questa autocomunicazione divina, a porsi in discussione, a domandarsi sul suo essere e del suo essere giungendo, infine, ad una scelta radicale: mettersi o meno alla Sua sequela, con tutto ciò che questo comporta. Colui che sceglie la sequela non può fare altro, che gridare a tutti la gioia di questo incontro, in pratica non fa altro che evangelizzare. È Dio stesso, per mezzo del suo Figlio, Gesù Cristo, per la potenza dello Spirito Santo, che manda l'uomo per le strade di tutto il mondo per fare conoscere ciò che allora, ma ancora adesso, questo incontro, questa esperienza, lascia nella vita di colui il quale incrocia le sue vie. Lo stesso termine "esperienza" che in greco viene reso con peiro, (che significa principalmente: "passare attraverso"), esprime bene l'evento, che avvolge e travolge gli attori di questo incontro. Qui il destinatario viene inondato di quell'azione divina, che diviene inabitazione nell'essere dell'uomo, cambiando quest'ultimo nel suo "carattere spirituale" (vedi la vita sacramentale). Coloro che sono attirati dall'amore di Cristo testimoniano, in fondo, questa esperienza di vita. Questi uomini vivono adesso una nuova vita, che è metamorfosi spirituale e materiale, in una nuova comunità di chiamati, appunto la Chiesa. Questa metamorfosi, che niente a che vedere con quella kafkiana, la chiamiamo "conversione di vita", che si rinnova giorno dopo giorno, perchè l'incontro con l'amante è, per la sua essenza, dinamico, non dato una volte per tutte, ma sempre originale. La novità quotidiana dell'incontro Cristo/uomo non può che non essere testimoniata come essa è realmente: viva, efficace, mai stanca, ma inquietante per ciò che comporta nell'esistenza del chiamato e per questo, responsabilizzante, perchè il chiamato, il discepolo, l'amico di Gesù, ha su di sé il destino delle anime dei fratelli, di tutti coloro, che ancora oggi, attendono di essere dissetati dall'acqua viva di Cristo. È la gioia dell'essere comunicatore, di essere portatore del messaggio di salvezza, di essere apostolo. È la stessa gioia sconvolgente degli innamorati, i quali non possono fare a meno di pensarsi, di darsi sempre più per diventare una cosa sola, nell'abbraccio che si fa silenzio e ascolto e che inonda gli altri, che sono vicini e che, anche loro, partecipano della stessa gioia, diventano anch'essi testimoni oculari di questa sensazionale esperienza. Dopo il primo approccio di conoscenza, l'uomo non può fare altro che fidarsi e affidarsi all'amante divino. È l'atto di fede quale frutto di questo incontro. La fede viene a connotarsi come obbedienza a qualcosa che pervade l'essere. È un'obbedienza libera e vincolata: libera in quanto l'innamorato sceglie egli stesso di dire "si", vincolata e vincolante, perchè imbrigliato nelle spirali dell'amore infinito non può fare altro, che essere ciò che è essenzialmente: follemente innamorato. Più ci si abbandona alla certezza dell'amore, più non si può farne a meno e più si cresce nella propria identità di uomo e di cristiano. È la fiducia nella certezza che non ha fine, che è già respiro di quell'eternità, che viene chiamata "paradiso" e che è già esistenza nella vita pneumatica dell'uomo nuovo. Fin da oggi viviamo parte di quel luogo che è l'Amore di Dio Trinità. Questo è il tempo non più identificabile con il Cronos, ma con il Kairos: la pienezza del tempo; il tempo di grazia inaugurato da Cristo Gesù nell'evento della risurrezione. Il cammino di fede del discepolo è così radicato nella nuova condizione di essere non per il mondo, sebbene continui la sua avventura nel mondo. È così che l'amico di Gesù vive ciò che i teologi identificano con il "già" e il "non ancora". Questo stato, alla luce dell'attuale contesto storico-politico-economico, a molti, risulterebbe essere come "precarietà di vita". Così la vita del cristiano è valutata come uno stato deprimente, frustrante. Per il credente, invece, lo stato del "già" coincide con il pregustare oggi la visione totalizzante del volto di Dio, che diverrà piena e inebriante com-prensione (da cum - prendere: prendere con, abbracciare, fare proprio), del Suo Amore. Questo "già" per la sua essenza escatologica, rende la fede del credente feconda, cioè capace di procreare altri nella fede, perchè al suo interno è colma dei semi di speranza, che hanno in Cristo la Speranza che è già certezza. Tale Speranza, oggi, apre orizzonti inspiegabili tra le ansie e le paure, che la drammaticità della quotidianità non smette mai di regalare. Allora, in un tempo in cui tutto è precario, tutto incerto, lasciando cadere nel nulla della propria esistenza la maggior parte di coloro, che "a questo mondo" si attaccano, l'unica risposta, che è certezza e da certezza è Gesù Cristo, l'autore della nostra redenzione, che è il frutto del dono dell'autodonazione di Dio nel Figlio. Qui la speranza si apre a noi in modo originale. Non è una speranza che implica anche una quota di incertezza (la speranza sostanzialmente umana), ma una speranza affidabile, nel quale orizzonte non ci sono insicurezze, non ci sono dubbi, ma la certezza della presenza viva della Trinità, della via, della vita e della verità. La vita del discepolo, allora, viene immersa in questa relazione, che rende liberi, come libera è la relazione trinitaria, entusiasti per la visione nuova dell'orizzonte della propria esistenza in un crescendo infinito di emozioni. Così viene giustificata l'affermazione di S. Agostino: «i credenti si fortificano credendo». Ciò vuol dire che la fede, quale risposta libera dell'uomo alla domanda di amore di Dio rivelato, si irrobustisce lungo il percorso della vita, nella doppia dimensione individuale e comunitaria. Questo perché l'abbandonarsi a Dio porta in sé necessariamente ed essenzialmente una doppia risposta al Padre (dimensione verticale della fede) e all'uomo (dimensione orizzontale della fede). Allora la fede diviene la possibilità di esistenza totalizzante della dimensione unitaria dell'uomo in quanto persona, ed in quanto persona, la fede è la risposta che rende l'uomo veramente uomo. La persona è resa veramente tale realizzando al massimo la sua dignità quale creatura fatta ad immagine e somiglianza del Dio creatore. Paradossalmente più il cristiano vive questo abbandono, che molti valutano come il tuffarsi nel nulla, più si fa intimo alla vita di relazione tri-personale divina e più viene rafforzato nella risposta al mondo rispetto alla sua attuale condizione di vita legittimando ciò che Pietro ci sollecita a fare: «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).
         
          L'Amore di Cristo...

          Dopo aver tentato di dare una lettura di insieme dei principali concetti del paragrafo 7, vogliamo, adesso, cercare di riflettere su alcuni punti che, a nostro avviso, sembrano importanti per chiarire quale sia la forza soggiacente all'idea di fondo di tutta quanta la lettera e, più specificamente, delle motivazioni che spingono il credente ad una riscoperta del suo essere cristiano. Per questo, come già preannunciato nella premessa ci soffermeremo sull'incipit del punto di nostra pertinenza, perchè da una lettura esegetica più approfondita si scorgono nuovi orizzonti interpretativi dello stesso paragrafo e, non di meno, della riflessione antropologica-teologica, che chiaramente emerge dal contesto del punto in questione.

          Caritas Christi urget nos, che il santo padre traduce con «l'amore di Cristo ci spinge», in realtà può essere tradotto anche diversamente, in modo da fare emergere l'alto spessore teologico, ma anche pastorale, che soggiace dietro allo sviluppo del tema in questione. La traduzione ulteriore può essere data solo analizzando l'intero v 14, senza però tralasciare i vv 13 e 15, che illuminano la nostra frase usata come incipit.
          Il v 14, infatti, continua con una constatazione: «noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti». Qui il «per tutti» da alla morte di Cristo un significato universale, cioè per i credenti, ma anche per quelli che non credono o a cui non è ancora arrivato il lieto annuncio. Questa universalità è data dal fatto, che la morte di Cristo non è sostitutiva, vicaria - "al posto di" -, ma "per noi", a "nostro favore", sottolineando la sostanziale novità del vangelo cristiano che nella morte del Figlio di Dio vede la fonte inesauribile dell'Amore trinitario per l'uomo.
          Caritas Christi, l'amore di Cristo, "urget", tradotto qui con "spinge" è, a mio avviso, la chiave di lettura, la chiave interpretativa, che apre orizzonti nuovi, verso una più ampia presa di coscienza rispetto al nostro essere e dovere essere di fronte l'altro e quindi nel prendere posizione rispetto all'evangelizzazione. Infatti, il verbo utilizzato nel testo greco "synechei", ha un'ampia gamma di significati, che definiscono la Caritas Christi in un modo diverso dal verbo "spingere" usato nella lettera. "Urget, synechei" può essere così tradotto: tenere insieme, sostenere, abbracciare, guidare, sospingere, stringere, travolgere, reclamare, obbligare, costringere, opprimere, affliggere, comprimere, sequestrare, assediare e tormentare. Si vede benissimo quale spettro di significati e di sfumature si da con un semplice verbo all'Amore di Cristo. Proprio di questo Amore qui si vuole parlare e alla luce di ciò che è stato detto fin d'ora, cercare di cogliere il senso che l'azione agapica - questo ricolmare d'amore - , ha nei confronti dell'uomo. Dobbiamo subito sottolineare, che il donarsi di Cristo all'uomo non lascia dubbi sull'essenza di questo amore. Se Cristo muore per noi, senza nessuna esplicita richiesta, senza alcuna necessità contingente, allora possiamo comprendere l'intensità, o per dirla con Paolo, la larghezza e la lunghezza del dono che il Figlio di Dio ci offre, dono che è dato per sempre e per sempre rimane con noi, così che possiamo dire: "chi ci separerà dall'amore di Cristo?" (Rm 8, 35). Dunque solo questo Amore diventa la nostra ragion d'essere e del nostro operare. Non dobbiamo nemmeno scandalizzarci se possiamo dire che, l'Amore di Cristo ci costringe, ci obbliga, ci opprime, ci sequestra e in definitiva ci tormenta. In tutti questi significati ognuno può rileggere la sua vita in riferimento alla sua chiamata, alla sua "vocazione" ed in tutto questo siamo in buona compagnia se Geremia, in 20,7, dice: «Signore [...] mi hai fatto violenza». È allora plausibile ciò che l'apostolo esprime al v 13: «Se infatti siamo stati fuori di senno, era per Dio; se siamo assennati, è per voi», facendoci comprendere quale sia il senso del v 14. Ma se il v 13 ci fa cogliere quali siano le conseguenze dell'essere travolti, sostenuti e guidati, da questo Amore, il v 15 sottolinea quale dovrebbe essere la motivazione, attraverso cui anche il destinatario dell'epistola si ritrova negli stessi sentimenti di Paolo: «Ed Egli è morto per tutti, perchè quelli che vivono non vivono più per se stessi, ma per Colui che è morto e risorto per loro». Allora l'essere pazzo o fuori di senno, da parte di Paolo, ma così anche da parte di chiunque, ha come motivo principale, l'essere consapevole di ciò che ha radicalmente stravolto la sua vita e cioè l'autodonazione di Cristo nelle mani dell'uomo, per salvare dalla morte l'uomo stesso. E questa consapevolezza è affermata proprio nel v 14.

Il moto dello spirito: riscoprire la gioia del credere

          "La gioia nel credere" è il moto dello spirito, come movimento di tutta l'esistenza del credente, in quanto "uscire da se stesso" per "divenire" ed "essere" comunione con Dio Trinità. Questo "uscire da se stesso" coglie il significato profondo delle parole di Gesù nel vangelo di Marco 8,34 «se qualcuno vuol venire dietro me, rinneghi se stesso...». È il mettere al primo posto Colui il quale ci guida perchè Egli è la Via, per la quale si giunge a quella comunione suddetta. È, in modo più profondo, il farsi come Cristo stesso nell'abbandono a Dio, l'Abbà, che è libera adesione alla volontà del Padre e che, quindi si manifesta come obbedienza e fede all'agire di Dio. Questo è l'atteggiamento "sostanziale" di vita di Gesù, che nasce e cresce con lui lungo tutta la vita, manifestata ampiamente (per quello che a noi è dato di sapere), nel corso della sua vita pubblica. Gesù prega: chiede al Padre e si rimette alla Sua volontà. Gesù è uomo di fede. È, dunque, anch'Egli soggetto della nostra stessa fede in Dio Padre, ma nello stesso tempo, Gesù il Cristo, è con il Padre l'oggetto nella nostra fede. La gioia del credere di Gesù sta nell'abbandono totale al volere del Padre, un abbandono che certamente matura progressivamente, che giunge al dramma della croce anche con la prova angosciante del getsemani, che apre le porte alla sofferenza massima, nella quale si coglie la massima espressione dell'amore gratuito per l'uomo. Gesù diviene il modello della sofferenza corporale e spirituale. In questa sofferenza bisogna leggere la sofferenza della natura umana nella sua caducità, nella sua limitatezza creaturale, ma che non termina con l'oblio, con il nichilismo. Qui si manifesta il mistero dell'agape trinitario: la croce. Il legno della croce diventa per il credente motivo di salvezza e quindi di gioia. Proprio attraverso quel legno l'uomo ha la certezza della vera vita, della vita eterna. Della possibilità di contemplare "faccia a faccia" il volto meraviglioso di Dio onnipotente. E qui sta la gioia del credente. Possiamo credere, perchè questo credere è reso definitivamente certezza di vita eterna attraverso la stessa fede di Gesù. L'abbandono di Gesù è il modello dell'abbandono del credente, che in questo, come per Cristo, non è lasciato solo. Certamente, non in modo irrilevante, l'azione dello Spirito santo risulta essere "conditio sine qua non" per cui ci possa essere da parte del cristiano la forza, il coraggio per rimanere responsabilmente nel suo "si". La gioia sta anche nella novità di questo amore, che lo Spirito rinnova momento per momento. La novità non è certamente rottura con il passato, ma ritrovato entusiasmo di ciò che questa comunione dona nella vita del credente e nella vita di colui che vive accanto a lui.

Il moto del corpo: Il comunicare la fede

          Se "riscoprire la gioia del credere" si può fare rientrare nella dimensione spirituale della persona, il "comunicare la fede" rientra in quella dimensione, che possiamo chiamare, corporale-sociale della persona. Infatti, comunicare la fede è insito nell'esistenza del cristiano che, dopo aver liberamente accettato di porsi alla sequela di Gesù, vive ciò a cui ha dato il suo assenso: vive ciò che crede e dunque non può fare altro che testimoniare alla comunità tutta la novità del suo "essere nuovo", con tutto il suo "essere nuovo". Ciò vuol dire che il linguaggio usato adesso sarà diverso dal precedente, perchè pervaso di una nuova vitalità, la vita nello Spirito. È l'agire del cristiano, che viene chiamato in questione. Ma come "comunica" la sua fede il cristiano? e principalmente cosa "comunica"? Non vogliamo certamente trattare questi argomenti, perché già trattati altrove con grande puntualità, ma ci sembrava importante richiamare la nostra attenzione, magari anche per una riflessione futura, su questi due interrogativi perché, crediamo, siano alla base dell'inquietudine di tutti coloro che hanno a che fare con la pastorale, in ogni suo ambito e che, il problema di fondo, cioè quello della comunicazione, sia oggi più che mai cocente ed esige una presa di consapevolezza della responsabilità che il cristiano porta in sé, per il semplice fatto di aver detto "si" alla Verità. La Verità, in rapporto alla fede, a cui ci riferiamo non è data da una somma di norme dottrinali, ma è una persona: Gesù Cristo, la Parola divina «diventata carne» (Gv 1,14) e per mezzo della quale, Dio si è manifestato per ciò che è essenzialmente: Trinità. È una Verità, che oltrepassa tutte le altre verità, che l'uomo nella sua esistenza accerta e accetta. Questa Verità, infatti, ha già in sé la sua particolarità, il fatto di essere la persona del Gesù, il Cristo, e quindi non è affatto il risultato di processi intellettuali, ma un incontro, incontro con Cristo. Nell'incontro con il vero Dio e il vero uomo, all'uomo di allora si aprivano orizzonti di conoscenza inimmaginabili, così con Giovanni Gesù ci dice: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Oggi, quest'incontro può realizzarsi come allora, nella comunità dei credenti attraverso i sacramenti, che sono il luogo d'incontro tra Dio e l'uomo, così come affermava Leone Magno: «ciò che era manifesto (visibile) nel nostro Salvatore si è mutato nei suoi misteri». La vita sacramentale è, dunque, la condizione necessaria per poter avere questo incontro, poter partecipare con la Vita di Colui il quale ci ha aperto questa Via. È, quindi, uno dei modi di comunicazione della fede. Certamente è un linguaggio che pretende già il consenso della fede. Un cammino di fede, che è già esperienza di questo incontro. È la "comunicazione" ad intra della chiesa, se così possiamo dire. Ma crediamo sia la base da cui partire per avere una giusta comunicazione ad extra della chiesa. Un vero testimone della fede cristiana è tale solo se si abbevera di quell'acqua viva che è Cristo e questo lo realizza proprio all'interno della comunità dei chiamati in una vita che è relazione di fratelli in Gesù, in unità di intenti e di voleri: «erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere [...]Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno.[...] spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godevano il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2,42-47). Da questa bellissima pagina sacra, nella quale si attesta una vita di comunità intensa fondata, appunto da quell'incontro che stravolge la vita, emerge in maniera decisiva, per la scelta di vita attuale della comunità credente, il bisogno di una vicinanza più intima tra i membri della stessa comunità, dove non ci sono docenti che si innalzano con la loro autorità, dove non ci sono condizioni particolari per farne parte, ma dove l'apostolo stesso che è il primo testimone della Parola, è a servizio della comunità, dove la comunione, insieme alla fratio panis e alle preghiere, diviene l'unica forma di vita possibile, poiché unica è la relazione intratrinitaria, della quale il cristiano partecipa attivamente in forza dell'unico Spirito, che realizza la comunicazione di questa relazione, come forza centrifuga che si distacca potente dall'unico eterno e infinto abbraccio d'Amore tra il Padre e il Figlio. Quindi era la testimonianza silenziosa, attraverso l'orazione continua a Dio, «lodando Dio» appunto, che rendeva i cristiani graditi agli altri. Essi «godevano il favore di tutto il popolo». Bastava manifestare con onestà ciò che si era, nella «semplicità di cuore», per essere riconosciuti e credibili nella loro nuova condizione di vita.

          Breve conclusione

          Vogliamo ora tirare delle conclusioni, che possano essere da trampolino per un più ampio e puntuale sviluppo degli argomenti. Per fare questo intendiamo forzare, chiedendo già venia per le conclusioni forse non coerenti con la sensibilità di alcuni lettori, il testo preso in considerazione. Infatti, se cambiassimo il significato dato al verbo dell'incipit "urget" a favore di una meno delicata, sebbene corretta, interpretazione del testo, con uno dei verbi della traduzione su effettuata, il tenore di tutta la lettera cambierebbe. Cioè se al posto di «l'amore di Cristo ci spinge», mettessimo "ci tormenta", o "ci costringe", o ancora "ci obbliga", ma anche "ci reclama" o "reclama a noi", potremmo rileggere l'ulteriore sviluppo in una dimensione forse più drammatica, ma sicuramente più incisiva, sempre tenendo conto di ciò che è stato finora detto, che la fede nasce dall’incontro particolare al quale si da il consenso libero e vincolante, che fa dell'uomo, della persona, un cristiano, cioè uno che segue Cristo, che vive con, in e per Cristo. Allora se l'Amore di Gesù Cristo, che è intrinseco della vita trinitaria, stravolge così ampiamente sia l'intimità della persona, che la sua vita relazionale, non può non essere intesa nei sensi dati dalle accezioni linguistiche succitate e dunque non può che essere necessariamente performante per il cristiano. Il tormento di questo amore investe tutta la persona senza lasciare fuori alcun ambito della sua vita: la sua intimità, la sua famiglia, il suo lavoro, insomma la sua vocazione qualunque essa sia. È dunque ciò che succede al pazzo quando non fa altro che entrare tanto in se stesso da estraniarsi, facendo emergere le profondità del suo essere, le quali vengono alla luce sempre per una causa scatenante che suscita una forte tensione nervosa e spirituale, fuggendo dalla realtà che da insicurezza ed incertezza, giungendo all'alienazione che risulta essere l'unica situazione che da riparo dall'altro da sé. Il cristiano "è" e "deve" essere questo folle, così come Paolo al v.13 della pericope citata. L'incontro con Cristo, in un primo tempo fa rientrare in se l'uomo, nel senso che, l'esperienza realizzata necessariamente, se reale, riporta il destinatario dell'evento dentro sé dove riconosce di essere profondamente distante, ma nello stesso tempo legato a Dio. Si riconosce naturalmente limitato, ma tensionalmente vicino a Colui che interpella. La riflessione che sfocia è profondamente personale, perchè quell'incontro tocca l'essere stesso dell'uomo. La causa scatenante, quindi è Cristo che chiama e che si china verso il piccolo, verso l'amico, verso il discepolo. Il risultato di questa riflessione intima può essere positiva, nel senso di porsi positivamente di fronte a Colui che parla e con lui intessere un dialogo aperto, intelligente, travolgente, ma può essere negativa, in quanto ciò che emerge dall'intimo dell'uomo potrebbe risultare così sconvolgente da lasciare irrigiditi nelle proprie convinzioni, nei propri preconcetti, nella propria realtà. La risposta positiva alla Parola innesca nell'uomo dei moti vitali che, per forza, coinvolgono la sua esistenza. È l'alienazione del cristiano, che avviene dal e nel "tormento", dalla e nella "costrizione" che il dialogo, che è essenzialmente dialogo d'Amore, fa vivere. Il tormento è appunto quello stato d'animo che nasce, nel caso della risposta di fede, dalla consapevolezza della grandezza dell'Amore che chiama e alla quale chiamata si può solo rispondere in maniera incompleta e questa sensazione avvilisce l'uomo, che si sente profondamente diverso e lontano da qual Dio che si è fatto vicino a lui. È la consapevolezza dell'inadeguatezza spirituale del cristiano. Ma è uno stato d'animo, che non distrugge l'intimo dell'uomo, come succede al malato psichico, ma anzi obbliga il cristiano a ritornare nuovamente a dialogare con chi interpella, per colmare il vuoto conosciuto dell'inutilità. Così S. Agostino nelle sue confessioni dice a Dio stesso parlando di quest'uomo che anela di quell'Amore: «Tu lo sproni, affinché gusti la gioia di lodarti, poiché ci hai creati per Te e il nostro cuore non ha pace fino a che non riposi in Te» ed ancora quando parla della divina chiamata dice:«Tu eri dentro di me, io stavo al di fuori [...] Tu eri con me, ed io non ero con Te [...]Mi chiamasti, gridasti, e vincesti la mia sordità; folgorasti il tuo splendore e mettesti in fuga la mia cecità, esalasti il tuo profumo, lo aspirai ed anelo a Te; ti degustai, ed ora ho fame e sete; mi toccasti, ed ora brucio di desiderio per la tua pace». Allora riscoprire la gioia del credere non è altro che rientrare nello stato di dialogo che ha Dio come interlocutore principale, è un ripensare la propria esistenza nei termini di abbandono, di affidamento, la gioia nasce dall'incontro ritrovato, dall'unione uomo/Dio, che è realizzazione di quell'unione teandrica che ha Cristo Gesù, quale massima espressione. Di conseguenza il comunicare la fede, risponde all'esigenza di far conoscere a tutti questo stato pervasivo dell'anima, questo abbandono ritrovato, e tutto questo in termini di missionarietà. Il dirsi del cristiano, diventa missione, la vita del cristiano è missione; è esigenza di farsi prossimo, di testimoniare ciò che vive alla comunità e agli altri. In termini di missionarietà il cristiano deve necessariamente riscoprire i valori etici fondamentali della sua esistenza: onestà, pace, fratellanza, comprensione reciproca, solidarietà, perdono. Ciò vuol dire, far fronte alle difficoltà che nascono dallo scontro con la cultura scristianizzata, che non riconosce più nella fede un criterio operativo dell'esistenza personale, familiare e sociale. È l'impegno dell'uomo di fronte all'uomo di dire qualcosa di veramente originale in termini nuovi, in termini coinvolgenti, rimanendo sempre allo stesso piano dell'altro, crescendo con l'altro, accompagnando l'altro e in questo, Dio trinità non lasciarà\ mai solo la sua creatura.




       Bibliografia essenziale

La Bibbia di Gerusalemme, EDB, 2009 Trento.

BENEDETTO XVI, Spe Salvi, lettera enciclica, Libreria Editrice Vaticana, 2007 Città del Vaticano.

AGOSTINO D’IPPONA, Le Confessioni, int. di A. LANDI, Edizione Paoline, 20013 Torino.

A. PITTA, Seconda lettera ai Corinzi, in Nuovo Testamento – commento esegetico e spirituale, Città Nuova Editrice, 2008 Roma.

P. CODA – C. HENNECHE (edd.), La fede, evento e promessa, Città Nuova Editrice, 2000 Roma.

D. BONHOEFFER, Sequela, Editrice Queriniania, 20082 Brescia.








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